L’amore per gli oggetti fatti bene dell’industrial designer Giulio Iacchetti

L’amore per gli oggetti fatti bene dell’industrial designer Giulio Iacchetti

Giulio Iacchetti

Intervistiamo Giulio Iacchetti, industrial designer, vincitore di due Compassi d’Oro nel 2001 e nel 2014 e del Premio dei Premi per l’innovazione conferitogli nel 2009 dal Presidente della Repubblica Italiana per il progetto Eureka Coop. Sempre nel 2009, la Triennale di Milano ha ospitato una sua personale intitolata “Giulio Iacchetti. Oggetti disobbedienti”. Da sempre attento all’evoluzione del rapporto tra realtà artigiana e design, nel 2012 ha lanciato Interno italiano, la “fabbrica diffusa” fatta di tanti laboratori artigiani con i quali firma e produce arredi e complementi ispirati al fare e al modo di abitare italiani. Per Toscanini ha progettato il portabito da muro AngieWall.

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La passione per il minimal di un designer guidato dalla purezza

D: Ci racconta com’è nata la sua vocazione per il design?

GI: Sono sempre stato attratto dagli oggetti, forse perché, come tanti della mia generazione, le cose andavano inventate perché non si potevano sempre acquistare. Fin da piccolo ero attirato dalle linee semplici, dalla pulizia capace di esprimere l’essenza di un oggetto, il suo ‘sentimento puro’. Allora ebbi una folgorazione per gli scacchi Staunton, quelle linee rigorose ma non banali mi colpirono moltissimo. Li vidi nella vetrina di un negozio del paese della riviera adriatica dove trascorrevamo le vacanze. Quelle linee mi raccontavano storie importanti, passavo ore ad ammirarle dal marciapiede finché mia madre si convinse a comprarmeli nonostante non fosse un acquisto consueto per una famiglia come la mia. Fu tuttavia un buon investimento visto che ci giocano ancora i miei figli.

Un’altra prova del mio interesse per gli oggetti dotati di certe caratteristiche è il regalo che chiesi per la Prima Comunione: domandai di poter avere un orologio da taschino ma ‘dalle linee pulite’. Non volevo la classica cipolla da ferroviere, ma un orologio quasi minimalista e i miei genitori fecero una bella fatica a trovarlo! È un oggetto che ho adorato e che ho ancora con me. Il mio desiderio bambino e inconsapevole di assenza di decori esprimeva già il mio interesse per il design.

D: Che tipo di formazione ha avuto?

GI: Non ho avuto una formazione specifica per il design, ho studiato architettura, ma ho presto scoperto che la dimensione ‘grande’ non è la mia. Non mi trovavo a Milano e non riuscivo a comprendere i grandi spazi che sono tipici dell’architettura. Non avevo, però, ancora capito che erano gli oggetti il mio campo; mi iscrissi a una piccola scuola serale di industrial design. Era dura perché di giorno lavoravo e di sera seguivo le lezioni per quattro ore cinque giorni a settimana. Per quanto non fosse una scuola blasonata, una di quelle con grandi insegnanti, mi spinse ad andare oltre e a dotarmi degli strumenti e delle nozioni che mi sono serviti nel mio lavoro. È una caratterista del mio percorso professionale disegnare la linea più lunga per collegare due punti e, lungo quella strada, apprendere il più possibile per poi utilizzarlo nei miei progetti.

D: Quali sono stati i suoi primi progetti?

GI: Studiavo i materiali, mi cimentavo nella loro lavorazione nel laboratorio modelli con macchine utensili messo a disposizione dalla scuola. Come lavoro di fine corso, creai una maniglia di legno e iniziai a chiamare le aziende che producevano maniglie per offrire loro il mio progetto, lo facevo così, ingenuamente, ignaro delle procedure ma per nulla spaventato dai rifiuti. Mi rispose la proprietaria della Frascio, un’azienda bresciana di maniglie, che accettò di incontrarmi e poi di produrre la mia maniglia. Mi sembrò una cosa normale, mentre ho scoperto dopo che di solito le cose non vanno proprio così, non è il caso a governarle. Devo dire che le donne mi hanno sempre offerto molte opportunità di crescita professionale, dandomi fiducia. All’epoca, come dicevo, procedevo per tentativi: prendevo l’elenco del telefono e chiamavo per proporre gli oggetti che progettavo a casa. Mi sono beccato molti ‘no’, ma ogni rifiuto mi ha rafforzato nella mia vocazione e mi ha insegnato a muovermi meglio.

D: C’è qualche altro episodio da raccontare?

GI: Io vengo dalla provincia di Cremona, una terra che ha poco a che fare con il design, almeno allora. Per riuscire a farmi ascoltare dalle aziende del territorio, mi serviva una strategia di proposizione. Pensai così di andare alla Camera di Commercio di Cremona e di dire ‘Mi occupo di industrial design, c’è qualche azienda che può avere bisogno di me?’. La risposta fu ‘no’, ma qualche tempo dopo, un’azienda di Viadana che produce scope, si rivolse alla Camera di Commercio, chiedendo il nome di un progettista. La signora con la quale avevo parlato si ricordò di me e mi segnalò. Con quell’azienda realizzai una scopa che restò in produzione fino al 2001 e che fu esportata in milioni di esemplari negli Stati Uniti.

L’importanza di dettagli e creatività, nel segno del Made in Italy

D: Chi sono stati i suoi maestri?

GI: Posso dire di aver imparato dalla strada; progettare è ‘tutto’, non è solo disegnare un oggetto, è decidere come vestirsi la mattina quando si va a incontrare un possibile cliente, è scegliere le parole da usare, la strada da percorrere, ogni cosa. Quando si è sconosciuti, quando bisogna risultare convincenti, ogni dettaglio conta per farsi dare fiducia.

Vorrei però anche dire che mio padre mi ha insegnato molto: lui era un risolutore. Le sue realizzazioni erano piene di intelligenza, magari non erano formalmente ‘belle’, ma erano sicuramente ingegnose. Sapeva aggiustare ogni cosa, dagli strumenti musicali della banda ad altri oggetti. Il suo era un genio stimolato dalla precarietà, sì, ma certamente fuori dal comune.

Tra i miei maestri mi piace citare anche il Gigante Buono del Carosello della Ferrero degli anni ’70, quello che veniva chiamato a riparare alle malefatte di Jo Condor: con calma e un sorriso, prendeva un suo libro, lo apriva e lo usava come tetto della scuola che il cattivo aveva distrutto. Laddove tutti vedevano solo un libro, il gigante aveva visto un tetto

D: Non è un po’ la storia del Made in Italy?

GI: Sì, proprio così. Gli inventori del Made in Italy non sono però solo i designer, ma anche gli industriali italiani, capaci di visione, curiosità e di risolvere i problemi con ingegno e un tocco di anarchia. Lo abbiamo raccontato in una mostra intitolata ‘Created in Italy’ e voluta dal Ministero degli Esteri. Il catalogo racconta proprio queste storie di ingegno imprenditoriale, di persone che non si sono fermate a ciò che sapevano fare, ma hanno esplorato altri territori, altre possibilità. Sono storie di coraggio, di rischi corsi, di intuizioni fortunate, magari indotte dal bisogno di uscire da una situazione problematica, ma sempre geniali e creative. Anche i designer italiani sono così, sono risolutori, non ragionano per schemi, sono liberi di pensare, di mescolare, di sperimentare. Penso a Enzo Mari, che è stato capace di contribuire con il suo talento alla ricostruzione di un Paese distrutto dalla guerra.

Angie wall

D: Come si sposa il design con l’eleganza?

GI: Eleganza, armonia ed equilibrio non si insegnano, si possono solo comprendere facendo comparazioni. Noi italiani siamo fortunati perché respiriamo questi valori fin da piccoli, sono innati. C’è un senso del bello anche nelle piccole cose quotidiane che non ha riscontro in altri Paesi. L’eleganza per me è rendere il massimo con il minimo, il resto è di più. È il tutto con poco. Il poco stimola a creare la bellezza.

D: È possibile che la pandemia abbia dato un nuovo impulso alla creatività?

GI: Ciò che noto è che, con la pandemia, molte persone si sono riprese la propria vita e i propri tempi. I giovani soprattutto non vogliono dedicare tutta la loro vita al lavoro, vogliono mettere al centro dei propri interessi sé stessi. Non so se questo possa aver generato una nuova creatività, è troppo presto per dirlo. L’ultimo Salone del Mobile ha in qualche modo voluto coprire le angosce della pandemia, come se in mezzo non fosse successo nulla. Forse abbiamo bisogno di più tempo per elaborare.

 

Semplici oggetti di bellezza: il guardaroba secondo Giulio Iacchetti

D: Parliamo un po’ del mondo Toscanini. Com’è stato lavorare su un oggetto di uso quotidiano come il portabito, nella fattispecie AngieWall?

GI: Mi piacciono moltissimo gli oggetti che apparentemente non hanno bisogno di progettazione. Ho sempre studiato le grucce perché hanno ampi margini di esplorazione pur restando oggetti funzionali e semplici. Sono oggetti portatori di valori, apprezzati da tutti, non solo da un’élite. Il link tra me e Toscanini è stato un libro a cura di Fattobene e dedicato a una serie di oggetti iconici e ben fatti. In quel libro, di cui ho curato la prefazione, mi sono riconosciuto come progettista ancora capace di far scattare la scintilla tra un’idea e un’azienda, tra l’oggetto e la sua versione ancora da pensare. Voglio lavorare sulle cose che mi piacciono e non ho problemi a propormi come progettista se un’idea, una cosa mi stuzzica. Mi piace essere promotore di nuove strade, non resto in attesa di essere chiamato.

Tornando a Toscanini, non ricordo particolari difficoltà nel corso del progetto. Certamente il percorso non è mai lineare, ci sono tempi di riflessione, pause, ci sono decisioni da prendere, modifiche… tutto normale in un tragitto da fare insieme. Il risultato però è un piccolo unicum, un oggetto di legno squisito a cui sono molto affezionato.

D: Quanto è importante sapere come si producono gli oggetti? O è meglio non avere conoscenze specifiche in modo da non avere vincoli di pensiero quando si progetta?

GI: Bisogna sapere un po’ ma non sapere tutto, altrimenti l’approccio si fa verticale. Come progettisti dobbiamo attenerci a una sorta di dilettantismo professionista che procede in orizzontale, facendo proprie esperienze di settori diversi e provando ad applicarle anche in altri ambiti. L’approccio delle aziende, invece, è tipicamente verticale e tende a escludere quanto non rientri nelle prassi di produzione collaudate. Ecco perché l’interazione tra i due approcci è spesso tanto prolifica. I designer impollinano le aziende con nuove idee e intuizioni, le aziende insegnano tecniche e condividono conoscenze importanti sui materiali, i macchinari, le lavorazioni… C’è ancora una sorta di immaturità del rapporto azienda-designer. Si pensa che il designer disegni e basta e che poi tutta la parte di sviluppo e produzione debba essere svolta dall’azienda, mentre non è così.

D: E il guardaroba? Come può evolvere?

GI: Il guardaroba è un mondo fantastico che va aggiornato e reso contemporaneo. Vorrei azzerare il concetto di ‘contenitore’ di vestiti e ripartire a pensare a ciò che indossiamo come parte della nostra storia. La stratificazione di vestiti che possediamo è interessante, ci rappresenta. L’armadio è conservazione ed esibizione al tempo stesso. Gli armadi sono per loro natura ‘inamovibili’ in un contesto in cui tutto è ormai in costante movimento e precarietà. Mi piacerebbe spendere una riflessione su questo aspetto e provare a dare un’interpretazione in tal senso perché oggi i mobili non sono ‘mobili’! Dobbiamo reinventare la nostra vita continuamente e anche gli oggetti devono essere ripensati in tal senso perché possano raccontare altre storie.

D: Come bisognerebbe scegliere gli oggetti?

GI: Io che sono vocato a progettare oggetti nuovi, in realtà vorrei essere circondato sempre dalle stesse cose. Faccio fatica a distaccarmene. Ho appena vissuto il lutto di un frigorifero molto amato che si è guastato e non poteva essere riparato. Ho fatto molta fatica a rinunciare a tenerlo comunque, se non dietro la minaccia di mia moglie!

L’amore per gli oggetti fatti bene significa avere la possibilità di scegliere. Ci si nega il piacere e il dovere di scegliere bene, accontentandoci di oggetti qualunque, mentre il piacere di un oggetto bello, grande o piccolo che sia, è impagabile e ci spinge a essere migliori. Creiamo la nostra storia costellandola di oggetti che ci fanno bene.

Semplici Formalità - Giulio Iacchetti

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