L’intervista impossibile a Ettore Toscanini, il fondatore e l’ispirazione della nostra azienda

L’intervista impossibile a Ettore Toscanini, il fondatore e l’ispirazione della nostra azienda

Questa è un’intervista che avremmo tanto voluto fare, ma che dobbiamo limitarci a immaginare. Ettore Toscanini, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, ci ha lasciato nel 2008 e, forse, anche se fosse stato ancora con noi, non si sarebbe prestato volentieri a una sessione di domande e risposte. Non che non amasse parlare, era un ottimo comunicatore, dotato di un talento speciale nel raccontare, ma preferiva il lato pratico delle cose. In occasione del centenario dell’azienda abbiamo intervistato familiari, collaboratori, fornitori e amici le cui testimonianze ci hanno aiutato a immaginare una conversazione con l’uomo che seppe dare una svolta decisiva alla piccola attività di famiglia, trasformandola in un’impresa internazionale.

Ricordi di famiglia, tra passioni e cose fatte bene

D: I primi ricordi della sua infanzia?

ET: In famiglia eravamo in quattro: mio padre Giovanni, classe 1892, mia madre Angela di cinque anni più giovane e mio fratello maggiore Ugo, nato nel 1920. La famiglia era originaria di Bogli, una frazione del comune di Ottone, in Val Boreca, sopra Piacenza, ma nel 1923, quando nacqui io, si era già stabilita in Valsesia da una ventina d’anni. Mio nonno Giuseppe, che era un bravo “segantino”, era stato chiamato qui per lavorare il legno e si era portato dietro la famiglia. Era dura, allora, soldi ce n’erano pochissimi, si faticava tutti, anche i bambini. Il nonno Giuseppe aveva avviato una piccola segheria dove produceva le componenti in legno per la costruzione dei tetti e commercializzava legname; mio padre si specializzò nella produzione di coltelli dal manico in legno, erano bellissimi e molto resistenti, pensi che qualcuno di quei coltelli esiste ancora ed è perfettamente funzionante. Papà aveva inventato alcuni accorgimenti per renderli belli oltre che funzionali, li progettava lui stesso, disegnandoli sul taccuino che portava sempre con sé. Era così bravo che nel ’33 ottenne il primo brevetto per una sua invenzione, è tutto documentato: taccuino e certificato, abbiamo conservato tutto. Mia mamma caricava coltelli e altri utensili nella gerla e andava per i mercati del circondario a venderli (gli occhi gli si fanno lucidi al ricordo NdR). Si faceva chilometri e chilometri con un gran peso addosso, salendo e scendendo dalle corriere e percorrendo a piedi tratti lunghissimi. Mi ha sempre commosso la sua forza, la sua capacità di sacrificarsi per la famiglia. Passando per certe strade che percorreva anche lei con il suo carico tanti e tanti anni fa, mi venivano ancora le lacrime agli occhi. Noi bambini dovevamo cavarcela da soli mentre i grandi erano impegnati, anzi, dovevamo contribuire anche noi al bilancio familiare. Ricordo che mio fratello e io andavamo nella fucina che si trovava vicino al torrente Besasca a battere le lame dei coltelli per 1 Lira all’ora, piccoli lavoretti che contribuivano al sostentamento della famiglia.

Coltelli

D: Com’è nato il suo interesse per la meccanica?

ET: È stato mio padre a trasmettermi la passione per il disegno tecnico, ho disegnato tutta la vita, mi piaceva moltissimo stare al tecnigrafo perché lì, provando e riprovando, trovavo le soluzioni che mi permettevano, per esempio, di modificare i macchinari. Tenga conto che, quando abbiamo iniziato a produrre portabiti, le macchine utensili per quel tipo di prodotto non esistevano proprio, bisognava ingegnarsi e adattare l’esistente. Mio padre mi ha trasmesso anche il desiderio di vedere le cose fatte bene e, siccome il modo migliore di ottenere qualcosa è provarci, ho imparato non solo a progettare, ma anche a realizzare strumenti e macchine in grado di produrre esattamente ciò che ci serviva. Quando ho iniziato a lavorare in azienda, ho capito che saremmo riusciti a progredire solo se fossimo stati capaci di produrre di più e in minor tempo. Erano anni in cui gli ordinativi volavano, tutti volevano lasciarsi alle spalle le ristrettezze della guerra. Avevo poco più che vent’anni allora, ma sapevo già che il successo della nostra piccola impresa familiare passava dal miglioramento costante delle macchine utensili: più velocità e precisione, uguale più portabiti, meno difetti e meno resi. Come dicevo, la produzione dei portabiti avviene secondo alcuni passaggi che le normali macchine utensili di allora non riuscivano a eseguire, e io allora le modificavo e lo facevo così bene che poi i produttori mi chiedevano di poter copiare i miei interventi! Io, da buon imprenditore, preferivo coprire le parti modificate per conservare il vantaggio competitivo. La meccanica mi è sempre piaciuta perché, quando la conosci a fondo e la sai applicare, riesci a ottenere risultati straordinari, proprio come quelli che ottenevo nelle gare di regolarità con le mie auto, un’altra mia grande passione.

Giostra

L’intuito, maestro di vita che porta i portabiti in legno al successo

D: Ha menzionato i portabiti, com’è nata questa specializzazione unica?

ET: Nel Dopoguerra, quando finalmente è tornata un po’ di stabilità, la gente ha iniziato a desiderare qualche oggetto in più da mettersi in casa e tra questi oggetti c’erano anche i portabiti su cui appendere i vestiti da tenere da conto. Si badava al sodo a quell’epoca, ogni cosa doveva essere durevole, solida e possibilmente ben fatta. Ho intuito che, se ci fossimo fatti trovare pronti, saremmo stati in grado di rispondere alle richieste dai grossisti di casalinghi che dopo la guerra tornavano ad aprire i battenti. Poi è stata la volta della Rinascente, il grande magazzino dei milanesi. Riuscii a entrare in contatto con i responsabili degli acquisti che allora si trovavano in via Santa Radegonda, di fianco al Duomo, e il 28 febbraio del ’48 diventammo ufficialmente suoi fornitori. Comunicare a quei tempi, non era facile. Pensi che conserviamo ancora una cartolina postale in cui venivamo invitati a un incontro proprio in Rinascente. Quindi, se era importante aumentare la produzione, era altrettanto importante farsi trovare! Il nostro è stato uno dei primissimi telefoni di tutta la Valsesia, il numero era di sole 3 cifre: 473! Numero che abbiamo conservato e che oggi è diventato 0163 22473.

Gli operai venivano dai paesi del circondario, persone volenterose che lavoravano tanto, sabato compreso, quando fabbricavamo le casse per imballare i portabiti, all’epoca il cartone non c’era e si usava il legno. Alcuni di loro sono stati con noi tutta la loro vita lavorativa, magari entrando in azienda ad appena 12 anni, ma così andavano le cose allora. Il giovedì mattina non c’era scuola e tutti i ragazzini andavano a fare piccoli lavoretti; alcuni venivano da noi a incollare i portabiti. Mi ricordo che mio papà Giovanni metteva sulla stufetta a legna le mele a cuocere, puntualmente i ragazzini gliele rubavano da sotto il naso. Era uno scherzo, ma probabilmente lui le metteva apposta e faceva solo finta di arrabbiarsi perché gliele mangiavano.

I miei figli hanno potuto studiare, ma li ho coinvolti nella quotidianità dell’azienda fin da quando erano ancora molto giovani, desideravo che imparassero a fare tutto e dessero una mano quando non erano impegnati con la scuola o i compiti. Giovanni, il mio primogenito, mi ha seguito fin da piccolo, osservando e imparando come io e i nostri falegnami facevamo le cose. Durante l’estate, quando erano più liberi, assegnavo loro piccoli lavori come, per esempio, attaccare le etichette con il prezzo, montare le scatole o stampare gli indirizzi dei clienti. Cristina ha ereditato la mia vena creativa ma anche la precisione, due cose che messe insieme sono un vero talento. Oggi, utilizza le sue doti nell’attività che ha avviato nel settore della moda e sta facendo molto bene. Federica, la terza dei miei figli, veniva spesso con me dai clienti e ascoltava e imparava. La sensibilità che serve a far bene le cose, non si studia sui libri, si assorbe sul campo, la si impara facendo domande, provando e riprovando con tenacia e umiltà.

D: A proposito di tenacia, dicono che avesse un carattere non facile…

ET: Non ho mai chiesto a nessuno di fare qualcosa che non fossi pronto a fare io stesso, ma se parliamo del fatto che ero un perfezionista e che sapevo precisamente come volevo che fossero fatte le cose, beh, allora sì, non accettavo che si lavorasse senza fare attenzione. Forse per formazione, ma più probabilmente per senso di responsabilità, ho sempre combattuto gli sprechi, lavorare male senza badare a ciò che si fa, sprecare il materiale o le ore di lavoro è una forma di mancanza di rispetto per sé e per gli altri. Ho insegnato a tanti a lavorare e, se posso essere stato brusco, ho però formato più di una generazione di bravissimi falegnami e operai con i quali ho condiviso tanto.

D: Quando c’è stata la svolta e la ditta Toscanini è diventata un vero e prorio brand, come si dice oggi?

ET: Se per brand intendiamo un’azienda che offre prodotti di alta qualità, affidabili e sempre nuovi, Toscanini lo è sempre stato, ma la svolta nel senso forse più moderno di brand è avvenuta alla fine degli anni’80, quando abbiamo iniziato a lavorare con le case di moda, ma avevamo già da un pezzo attraversato l’Atlantico per vendere i nostri portabiti nei department store americani più importanti. Il primo couturier è stato Valentino, per lui abbiamo realizzato un portabito che porta il suo nome e di lì in poi non ci siamo più fermati e ci siamo guadagnati sul campo la reputazione di partner competente e capace. Il mondo della moda è difficile, non aspetta e vuole sempre qualcosa di speciale, di unico, a volte di impossibile, ma io non mi sono mai tirato indietro, né ho mai detto ‘questo non si può fare’. A forza di prove, sbagli e nuovi tentativi, ci sono sempre riuscito. In questo mi hanno aiutato la conoscenza della materia prima – il legno – e della sua lavorazione, della meccanica e la creatività. Sì, perché serve immaginare soluzioni che non siano scontate per superare gli ostacoli, bisogna inventarsi modalità diverse, magari prese da altri settori, per riuscire a dare al cliente ciò che desidera anche quando gli altri hanno detto no. Non so se questo fa un ‘brand’, la mia generazione non era pratica di marketing, ma so che l’istinto è qualcosa che ci va molto vicino e io il mio istinto l’ho sempre usato anche quando mi davano del matto. Per esempio, negli anni ’70, quando sembrava che la plastica avrebbe scalzato il legno per sempre, ho riconvertito parte delle macchine alla produzione di zoccoli. Rosella, mia moglie, mi ha molto aiutato e, insieme, abbiamo realizzato collezioni che sono andate a ruba. Siamo arrivati a venderne oltre 500.000 paia in un anno e mi dicevano che era una follia…

Rinascente

Oltre i portabiti: la soddisfazione di quel plûch in più

 D: C’è un’altra cosa che la appassiona oltre alla lavorazione del legno e alle automobili, vero?

ET: Eh sì, le centrali idroelettriche (qui gli occhi gli brillano NdR). Sono nato lungo un fiume e sono sempre stato affascinato dall’energia che il suo scorrere produce e dalla possibilità di imbrigliarla. Da noi in Valsesia ce n’erano tante di centrali, le usavano i lanifici e le filature per azionare i macchinari, ma negli anni ’60 e ‘70 una serie di alluvioni disastrose e i costi elevati della gestione delle centrali rispetto al petrolio, spinsero le aziende ad abbandonarle, uno spreco, un vero peccato. Così, ho iniziato recuperandone una che era in pessime condizioni e che, con molto lavoro e molta fatica, ho rimesso in funzione. A quella ne sono seguite altre, una strada che mio figlio Giovanni sta proseguendo con successo e con altrettanta passione, direi.

D: E se le chiedo del Carnevale…?

ET: Eh, il Carnevale della Valsesia è una faccenda seria! Pensi che è una tradizione che quest’anno compie 170 anni ed è un evento profondamente sentito da tutte le genti della valle, un momento di grande condivisione umana, culturale e artistica. Insieme a Ugo Pizzi, Gianfranco Zanni e Mario Casagrande, oltre a diversi altri imprenditori e commercianti della Valsesia, abbiamo riportato in vita la tradizione che all’inizio degli anni ’60 si era un po’ spenta. Lo abbiamo fatto per passione, certo, ma anche come impegno sociale, ci abbiamo messo denaro, tempo e risorse. Io, per esempio, tra le altre cose mi sono occupato del trenino che portava a spasso i bambini nei giorni del Carnevale. Con l’aiuto dei miei operai ho creato un piccolo treno colorato con tanto di vagoncini. Sono certo che negli album di fotografie di molti ex bambini il nostro trenino c’è! Il Carnevale era un momento scanzonato e democratico, in piazza a mangiare la tradizionale ‘busecca’ (trippa NdR) eravamo tutti uguali e so che è ancora così. È bello pensare che questa antica tradizione non sia solo folklore, ma una ricchezza alla portata di tutti. 

Carnevale Toscanini

D: Per i 100 anni dell’azienda è stato realizzato un volume che racconta la storia e i protagonisti della Toscanini. Il team che ci ha lavorato ha potuto contare su un’incredibile abbondanza di materiale, documenti ufficiali, note, immagini, reperti e ogni genere di testimonianza rari da trovare, c’erano poche foto sue però, come mai?

ET: (ride) A me le foto piaceva farle più che farmele fare! Buona parte delle immagini che sono state usate per il libro, le ho scattate io con la mia Rolleyflex, una macchina fotografica che mi piaceva molto per la versatilità e la semplicità d’uso.

D: C’è qualcosa che vuole aggiungere?

ET: Ho già parlato fin troppo per i miei gusti, ma una cosa ancora la voglio dire: ho lavorato molto, ma sono stato ripagato da grandi soddisfazioni e di questo sono grato alla vita. Sapere che la mia famiglia prosegue nella mia opera è motivo di orgoglio per me. È altrettanto importante sapere di essere riuscito a trasmettere ai miei figli e alle persone che lavorano con loro il piacere di fare le cose bene, di ricercare sempre quel “plûch”, quel pelucco in più che fa la differenza tra un prodotto ben eseguito e uno fatto con il cuore oltre che con la testa. Infine, vorrei citare il mio legame profondo e il senso di riconoscenza che sento per la Valsesia, la mia casa, la mia fonte di ispirazione primaria. Un orgoglio che al telefono mi faceva dire con fierezza: “Sono Toscanini di Isolella”.

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